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Gogo Penguin – Intervista con Chris Illingworth

Negli scorsi giorni abbiamo avuto con noi i Gogo Penguin nella persona di Chris Illingworth per una intervista super interessante . La prima internazionale per noi di SpinnIt. Nel prossimo Episodio del Podcast – arriva presto, promesso! – inseriremo alcune delle sue risposte. Fateci sapere se volete anche la versione integrale dell’intervista in inglese.

Per gli altri che hanno voglia di leggere, ecco quello che ci siamo detti.

Questo è il vostro primo album omonimo. Cosa significa per voi averlo intitolato Gogo Penguin?

Questa è una domanda che ci è stata fatta diverse volte e non è facile rispondere in maniera veloce. Una delle cose che fin dall’inizio abbiamo avuto come band è stata la sintonia. Nel senso che naturalmente, suonando, ci siamo sempre trovati ad andare nella stessa direzione. Per quanto riguarda questo album, è come se fossimo arrivati il più vicini possibile al nostro obiettivo: ad esprimere esattamente quello che avevamo in mente con la musica.
Nel passato ci siamo spesso ritrovati a dare un titolo alle canzoni e all’album, dopo averle scritte. E i titoli sono sempre stati astratti, in modo che potessero adattarsi a chiunque.
Di solito riuscivamo sempre a trovare qualcosa che riuscisse a descrivere tutto, ma con questo album era diverso. Non riuscivamo a trovare una costante, eccetto il fatto che fosse un album nostro. La costante eravamo noi, i Gogo Penguin. E quindi è stato naturale, ad un certo punto, decidere di chiamarlo Gogo Penguin, perché, in fondo, questo album rappresenta noi.

Avete avuto un enorme successo con A Humdrum Star, come fate a sostenere le aspettative, quando fate nuova musica?

Beh, ti direi che ce ne freghiamo e facciamo ciò che vogliamo. Però, scherzi a parte, in realtà cerchiamo sempre di stare attenti a quello che gli altri dicono perché non sai mai da dove l’ispirazione può arrivare.
Ma in realtà, quando poi ci mettiamo a scrivere tutto il resto non importa. Siamo noi e ciò che vogliamo dire e dimostrare con la nostra musica. Sappiamo che ci saranno persone che lo apprezzeranno, altri no. Ma, in fondo, si tratta di arte: noi vogliamo esprimere qualcosa e vogliamo farlo a modo nostro. Naturalmente il supporto del management di Blue Note è fondamentale. Perché, come successo per A Humdrum Star, ci ha dato totale libertà. Fate ciò che volete, realizzate la musica che preferite.
Il fatto di non pensarci, comunque, riguarda anche noi stessi. Ad esempio, quasi sempre pensiamo e immaginiamo le canzoni partendo dall’elettronica, ma con l’obiettivo finale di suonare strumenti veri. Questo per alcuni potrebbe rappresentare un limite – perché non sai mai se poi riuscirai a suonare allo stesso modo uno strumento vero – noi invece cerchiamo di non porci limiti e di fare ciò che vogliamo.
E i fans, poi, ci hanno sempre sostenuto in questo. Infatti non poter suonare ci manca davvero molto.

Questo album è il terzo con Blue Note. Com’è lavorare con loro? Ci sono differenze con una normale casa discografica?

Allora, per i primi album, ad essere onesti ci siamo trovati benissimo con la nostra prima casa discografica, Gondwana Records, ai tempi di Fanfares e V2.0. Entrambe le case discografiche ci hanno sempre sostenuto e ci hanno sempre permesso di esprimermi come volevamo, come dicevo prima. Naturalmente, però, ci sono differenze con Blue Note, come è giusto che sia vista la storia e l’importanza di questa label.
La nostra prima label, che pure oggi è diventata grande e contiene molti musicisti interessanti, è decisamente più piccola se paragonata a Blue Note. E in più c’è tutta la storia che Blue Note si porta dietro, per ciò che riguarda la musica jazz.
Nonostante questo, però, non sono focalizzati solo sul jazz ma sono decisamente proiettati verso il futuro della musica. Per questo motivo ci siamo trovati molto bene perché, sì, abbiamo nel jazz le nostre più grandi influenze ma non vogliamo essere legati ad un solo genere. Vogliamo poter sperimentare e Blue Note ci offre questa possibilità.
Non ci hanno mai dato nessuna restrizione e questo ci ha permesso di fare quel passo successivo per raggiungere il tipo di musica che vogliamo realizzare.
Naturalmente, poi, un nome così importante ci ha permesso di raggiungere un numero molto più grande di persone che altrimenti non avremmo potuto raggiungere.

Hai parzialmente risposto alla prossima domanda. Noi, infatti, abbiamo spesso detto come Blue Note si stia ponendo verso la musica con un approccio assolutamente innovativo. Nonostante il legame con il jazz, infatti, sono sempre alla ricerca di musicisti nuovi e che possano portare la musica ad un livello successivo e che siano innovativi. A tal proposito, volevo chiederti cosa significa per voi essere innovativi in ambito musicale?

Sì, il discorso è simile a quanto dicevo prima. Quando scriviamo non vogliamo essere legati ad un genere in particolare, ma vogliamo avere libertà completa su ciò che realizziamo.
La cosa importante per noi è fermare il presente. E farlo con la nostra musica. Così come per ogni tipo di forma espressiva il punto è di raccontare quello che sta succedendo. Questo significa prendere nostre esperienze, pensieri, idee e metterle nella nostra musica.
Per esempio, nel caso di A Humdrum Star siamo partiti dall’idea dell’esplorazione spaziale. Volevamo cercare di parlare di quel cambio di percezione che avviene nel momento in cui osservi la terra dallo spazio e ti rendi conto dell’immensità di ciò che ti circonda, rispetto a quanto noi siamo piccoli. Quello che viene chiamato overview effect.
Anche nel caso di questo album, partendo proprio dal nome – Gogo Penguin – abbiamo cercato di essere più onesti possibile. Volevamo rappresentare noi stessi. E per quanto riguarda l’innovazione, pur partendo da un formato estremamente classico come quello del trio jazz, volevamo portare gli strumenti ad un livello successivo.
In Gogo Penguin, quindi sono confluite tutta una serie di cose che riguardano la nostra vita. Ad esempio io durante la realizzazione dell’album sono diventato padre, quindi diverse nuove sensazioni si sono riversate nella mia musica.
Tornando all’innovazione, comunque, credo che venga proprio da questo: le sensazioni, i sentimenti e in generale il dire e fare ciò che vuoi. Liberarsi dai limiti di genere e dal “non si può, forse non ci riusciamo”.
Una cosa è impossibile finché non ci provi.

Questa volta avete avuto sei mesi per lavorare al nuovo album, questo ha cambiato il modo in cui fate musica?

Sì, rispetto al passato è stato diverso sotto vari punti di vista. Di solito non avevamo pause fra tour e registrazioni dei nuovi lavori. Avendo questo tempo abbiamo avuto più tempo effettivamente per fare esperienza. Esperienza che poi si è riversata all’interno delle canzoni a livello di emozioni, sensazioni, eccetera.
Quando ci siamo ritrovati in studio, per i primi tempi, abbiamo semplicemente suonato fra di noi, raccogliendo le idee: per esempio abbiamo ascoltato tanto di altri artisti, così da poter ampliare le nostre idee e vedere un po’ cosa si poteva effettivamente fare.
Dopo di che abbiamo preso le varie singole idee e abbiamo iniziato a lavorarci: in alcuni casi si trattava di bozze di brani, ma in altri erano davvero solo dei beat di batteria o una serie di accordi. Da lì, quindi, abbiamo iniziato a mettere insieme le cose e fare modifiche su modifiche finché non sono nate le canzoni vere e proprie dell’album.
Però in generale la cosa più bella è stata l’opportunità di potere jammare senza la pressione di dover fare un album in poco tempo.
Dopo quei sei mesi, in più, abbiamo anche avuto alcune settimane di tour e di vacanza – dove per l’appunto è nato il mio bambino. E anche quel momento è stato molto utile per staccarsi dalla musica e tornarci con ancora più energia e attenzione.
Infine siamo andati a registrare in uno studio a Leeds per due settimane, ed è stato bellissimo perché nonostante fosse vicino a casa e tanti gruppi invece scelgono posti particolari come Los Angeles o magari un posto con una vista bellissima, noi abbiamo deciso di andare dietro casa perché lì c’erano tutti gli strumenti di cui avevamo bisogno e nessuna distrazione.
È stata una esperienza davvero divertente e molto bella perché comunque abbiamo avuto la possibilità di affittare lo studio e anche viverci per quel periodo. Io, per esempio, mi occupavo del pranzo e della cena e dopo di che avevamo la possibilità di suonare fino a notte inoltrata e, insomma, è stato davvero bello.

Il nuovo album, come hai giustamente detto, è molto più profondo e mi manda vibrazioni differenti dal solito. Per voi riascoltarlo com’è?

Per noi in realtà è diverso perché noi abbiamo visto l’album prendere vita, pezzo dopo pezzo. Quindi, sì, le sensazioni che percepisco io sono diverse da quelle che può sentire un altro. Ovviamente noi stessi siamo stati consapevoli che cambiamenti e dell’evoluzione dell’album ma anche di noi stessi come persone e come band. Però per noi è un qualcosa di più sottile. Allo stesso modo per cui, ad esempio, quando vedi tuo figlio crescere ti rendi conto dei cambiamenti, ma l’effetto è sicuramente meno forte di quello che hanno i nonni quando lo vedono dopo diverso tempo.
Quindi, per concludere, eravamo consapevoli di quello che stavamo facendo e del fatto che ci abbiamo messo molti più di noi all’interno e per questo è più forte – a livello di emozioni – rispetto agli altri album, ma per noi è stata una cosa graduale.

Hai già parlato del fatto che ti manca non poter vedere i fans e fare concerti, ma effettivamente come stai vivendo questo periodo di lockdown?

Beh, prima del covid, volevamo far uscire l’album e volevamo assolutamente fare concerti. Quindi all’inizio è stato difficile. In realtà, però, in un certo senso ci siamo abituati alla cosa e quindi ci sta facendo anche del bene. Perché, per esempio, sto avendo modo di passare più tempo con la mia famiglia e lo stesso vale per gli altri ragazzi.
In tutti questi anni abbiamo lavorato intensamente senza mai fermarci e quindi abbiamo avuto per la prima volta il modo di rilassarci. Può sembrare strano, ma non intendo dire che non siamo contenti per il successo della band, però avere questo time off ci permetterà di tornare alla musica con una energia diversa e più carichi di prima. Anche perché praticamente dalla nascita dei Gogo Penguin, non ci eravamo mai fermati.
Ad ogni modo, comunque, tornando ai concerti, quella è una cosa che manca. Perché non c’è niente che possa avvicinarsi come sensazioni ad un concerto live. È per questo che, pur apprezzando la voglia che hanno messo molti artisti nel voler essere presenti online, penso che l’intensità e la bellezza di un concerto non potranno mai essere eguagliate. Ogni concerto è diverso, ci sono tanti fattori che rendono il concerto unico e vivo: il pubblico in particolare che è sempre diverso, ma anche il nostro state of mind in quel momento.
Per questo motivo non vediamo l’ora di poter tornare in tour.
Parlando del lockdown in generale, comunque, è una situazione molto strana cui nessuno era abituato. Sì, per fortuna stiamo bene, però è chiaro che mancano tante cose: poter uscire, vedere la famiglia e gli amici.
Ci sono alcune persone che fanno finta di nulla, ma, ecco: non è una situazione normale. Nonostante questo, comunque, ho raggiunto un equilibrio che si basa sulla pazienza. Passerà, in fondo, anche questo momento. Bisogna resistere e, insomma, anche se a volte sembrava ma non è la fine del mondo, si tratta di adattarsi e avere pazienza.
So che la situazione in Italia non è delle migliori, però, l’importante è avere in mente che alla fine passerà.

La situazione concerti, poi, è molto particolare. Qui in Italia da poco hanno ripreso ad organizzare qualcosa ma con regole molto stringenti e la maggior parte degli eventi è comunque stata cancellata.

Sì, è molto difficile anche per noi organizzare. Perché ci sono tutta una serie di complicazioni. Ogni nazione ha regole diverse, poi c’è la situazione degli aeroporti. Noi viaggiamo tantissima ma, in questo momento è anche un po’ spaventoso. Però come dicevo l’importante è pensare che passerà. E anzi, sono convinto che appena questa situazione sarà finita la gente avrà bisogno e voglia di musica e arte come mai prima d’ora. Perché la musica riesce ad unire e questo adesso è ciò che ci manca più di tutto.

Avete delle date pronte o qualcosa che non è stato cancellato?

Rispondere è complesso. Perché effettivamente è una situazione del tutto in divenire. Ci sono una serie di date su cui siamo ottimisti, ma non si può effettivamente sapere. Anche perché, e questo a volte viene dimenticato, ci sono tutta una serie di costi dietro un tour. E se non siamo in grado di quantomeno recuperare i costi con le date, allora il tour non può partire.
È un circolo, in cui bisogna trovare il giusto equilibrio, perché alla fine è un business. Se non siamo in grado di mettere insieme abbastanza date, non abbiamo i soldi per coprire le spese e senza soldi non possiamo fare i concerti. Quindi è una situazione molto complessa che stiamo cercando di sbrogliare, sperando che tutto si risolva presto.
Nel mondo della musica, comunque, siamo tutti nella stessa situazione.

Come è stato fare il live concert per il documentario Koyaanisqatsi che poi ha portato all’uscita dell’EP Ocean in a Drop?

A Manchester c’è questo posto che si chiama Home, all’interno ci sono teatri, cinema e altre attività culturali. Dopo l’apertura ci era stato chiesto di fare la musica per un film muto. L’idea originale era quella di fare la musica per un film muto giapponese dal titolo A Page of Madness. Purtroppo per motivi legati ai diritti non siamo riusciti a sonorizzare quel film in particolare.
A quel punto Rob ha proposto Koyaanisqatsi, che però non è un film muto e ha già la sua colonna sonora. Quindi è nata l’idea di una sonorizzaizone live del film.
All’inizio dovevano essere due sole date, poi però abbiamo proseguito e abbiamo usato questi live per fare qualcosa di diverso dalla routine tour/recording.
È stata un’esperienza molto stimolante perché non eravamo abituati a questo tipo di attività. Quando realizzi un album parti da zero, in questo caso invece c’erano già tanti elementi esistenti. L’approccio quindi è stato diverso, perché avrò visto il film 100 volte senza audio e poi un altro paio di volte con la musica e tutto. Per capirlo e cercare di dare vita poi ad una musica che potesse adattarvisi.
Anche la performance in sé è radicalmente diversa. Un’ora e venti, senza praticamente interruzioni è molto divertente e particolare.
Ad ogni modo il motivo principale per cui l’abbiamo fatto è stato quello di voler fare qualcosa di diverso. Siamo sempre alla ricerca di altre forme d’espressione, diverse dal fare un disco e poi un tour, ma comunque qualcosa che rispecchi il nostro essere Gogo Penguin.
È comunque qualcosa che stiamo pensando di riportare di nuovo live, speriamo anche in Italia.

Grazie Chris per la chiacchierata e speriamo di vederti in Italia molto presto.

Grazie a voi ragazzi e non vediamo l’ora anche noi di poter tornare in tour e fare un salto in Italia. E mi raccomando di venire a salutarci, poi!

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