Godspeed You! Black Emperor: musica per città condannate
F#A#∞ dei Godspeed You! Black Emperor e La città condannata di Arkadij e Boris Strugatckij
Attenzione, questa è fantascienza.
Luoghi, persone, vicende, fatti, sono frutto della fantasia (fervida, fin troppo fervida) degli autori. La città condannata non esiste davvero. E anche tutta questa gente che accoglie (i delusi, gli emarginati, i nonconformisti, i sognatori, i fuggiaschi, cinesi saggi, americani amareggiati, nazisti ambiziosi, giapponesi rigorosi, ebrei sagaci), tutte queste persone che brulicano nel suo grembo fetido, nutrita dalla promessa dell’Esperimento, rassicurate dalle parole di un Mentore che predica di credere senza cercare di capire, neanche loro esistono, non preoccupatevi. Esistono però i Godspeed You! Black Emperor.
The car’s on fire and there’s no driver at the wheel
And the sewers are all muddied with a thousand lonely suicides
And a dark wind blows
The government is corrupt
And we’re on so many drugs
With the radio on and the curtains drawn
We’re trapped in the belly of this horrible machine
And the machine is bleeding to death.
Alla base, bisogna essere visionari.
Saper vedere quello che altri non vedono. Da prospettive che altri non sanno nemmeno che esistono. Saper vedere a occhi chiusi, vedere con altro. Per questo un’opera monumentale come La città condannata di Arkadij e Boris Strugatckij (Carbonio Editore), concepita nella russia sovietica tra il 1967 e il 1972 e destinata a rimanere chiusa in un cassetto fino al 1989, ha una armonia perfetta con F#A#∞, il capolavoro classe 1997 dei Godspeed You! Black Emperor. Vi ricordate? Ne parla Fra durante l’episodio 2 del podcast. Quale momento migliore per andare a riascoltarlo, visto che il più visionario collettivo musicale degli ultimi trent’anni ha appena pubblicato una nuova uscita?
Sfogliate il libro. Verrete trasportati nei Quartieri Bruciati, tra edifici che appaiono e scompaiono e un incombente Muro Giallo all’orizzonte. Sentirete le sonorità cupe e l’inconsolabile violino triste che accompagna la voce narrante in apertura a The Dead Flag Blues. È lei, è la stessa Città condannata. La chitarra che contrasta l’oscuro mostro nero e minaccioso che sembra muoversi per le vie di East Hastings in apertura assomiglia ad Andrej perso nei corridoi del palazzo misterioso dove si gioca una eterna partita a scacchi col grande stratega.
Non vince affatto chi sa giocare seguendo le regole; vince chi è capace di ignorarle tutte al momento opportuno, di imporre al gioco le proprie, sconosciute all’avversario e se ce ne fosse bisogno di abbandonare anche queste.
Incede la chitarra, sempre più decisa. Viene sorretta dall’entrata decisa degli archi, da quella marziale della batteria. Andrej vuole vedere davvero fino in fondo (un visionario?) e parte per raggiungere quella parte della città di cui non si hanno né carte né notizie (l’Anticittà, sic), quella che si estende fin sotto il Muro Giallo, da cui si mormora si gettino delle persone… Non preoccupatevi, non sono mai esistiti muri da cui la gente si è gettata per disperazione. Sono solo fantasie di visionari.
“I manoscritti non bruciano” dice Woland nel Maestro e Margherita.
La città condannata è costellata di innumerevoli e diaboliche criptocitazioni intessute a trama fittissima nella struttura del libro. Il disco dei Godspeed non è da meno: accanto a composizioni strumentali complesse e vastissime (sì, ci sono anche le cornamuse), i suoi visionari musicisti hanno registrato suoni, percezioni, distorsioni… treni. Un tessuto sonoro impareggiabile. No, i manoscritti non bruciano mai. Risuonano nell’infinito. F#A#… ∞.
La realtà è un’altra.
Chi è visionario riesce a essere tanto proteso verso lontanissime dimensioni cosmiche quanto pericolosamente vicino alla nostra realtà. Chi è visionario nutre la grande speranza che attraverso le sue visioni diventeremo più consapevoli anche noi.
Per questo La città condannata la scopriamo seguendo l’ascesa di Andrej verso la consapevolezza, da semplice netturbino a consigliere, fino a diventare capo di una spedizione oltre i confini della conoscenza (e quindi padrone della sua verità).
Per questo i tre brani di F#A#∞ dei Godspeed (almeno nella versione che si trova su Spotify, ma ascoltate il podcast per la storia di questo disco!), divisi in segmenti, prendono corpo un po’ alla volta, gli strumenti si uniscono, si armonizzano, vibrano, montano in un crescendo e poi si acquietano, fluttuano, si disperdono.
But d’you think the end of the world is coming?
No. So says the preacher man but… I don’t go by what he says.
Invece la verità del Mentore a poco a poco si frantuma: “la cosa più importante è credere in un’idea fino alla fine, in modo incondizionato. Rendersi conto che la non comprensione è una delle condizioni indispensabili per l’Esperimento. E, naturalmente, la più difficile.” La frantuma a poco a poco Izja Katzmann, a colpi di letteratura e filosofia: “Qui siete tutti dei veri cretini.E il pericolo minaccia solo le persone intelligenti […]. La vera tragedia è proprio questa. Ora un gran numero di persone rinsavirà, ma non abbastanza. Non farà in tempo a capire che, invece, bisogna subito fingersi pazzi…”.
Providence.
La terza canzone. La chiusura. La fine in cui lampeggia la speranza. Hope, una scritta che un’apparizione costante ai concerti dei Godspeed. Che si insinua anche nella Città condannata. Si stende come una carezza di violini, si impone violenta rotolando su accordi di chitarre. Marcia danzando su un crescendo di batteria, fiera e ferita, accecante come il sole allo zenit in un deserto di ricordi altrui (che forse somiglia alla famosa Zona di Picnic sul ciglio della strada). Con lei avanzano uomini soli. E liberi. Non hanno paura della morte, non hanno paura di avere paura. Hanno speranza. Ma non preoccupatevi, sono solo dei poveri visionari, e come le loro fantasie, non esistono davvero.
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