Dogrel, troppo reale per noi
Se nasci isola ai confini del mondo
“My childhood was small, but I’m gonna be big”.
Grian Chatten ha un faccino pulito e due grandi occhi chiari, ma quando prende in mano il microfono e sputa fuori i suoi “dogrel”, versi da poco orgogliosamente imbevuti di influenze gaeliche, ti ricordi subito come le apparenze ingannino. Batteria aggressiva, giri di basso old style e una carica esplosiva che ha tutto il sapore del punk anni Settanta, ma è profondamente attuale: la musica dei Fontaines D. C., la band post-punk irlandese che non ha paura di essere troppo reale, si mette subito a nudo, spoglia di ogni velo la sua Irlanda bigotta, povera, operaia, oppressa, offensiva.
Ma non è certo per denigrarla che la espongono così, né per piangersi addosso o lasciarsi umiliare: se c’è una cosa che l’Irlanda insegna, è a non vergognarsi di essere fragili. Noi così impegnati a mostrarci plastici e sorridenti dietro allo schermo di un cellulare, dovremmo imparare a non dimenticarlo. Se nasci isola ai confini del mondo e il mare delle tue coste ribolle incessantemente sotto le frustate dei venti dell’Atlantico, insegna ai ragazzi nei tuoi pub a schiumare di rabbia come lui.
Madre Dublino
“Dublin in the rain is mine, a pregnant city with a catholic mind”.
La scena culturale di Dublino si riversa sulle strade pronta a fare grandi cose. Suona punk, post-punk, electro-punk, sconfina nel noise, prende fiato su antiche ballate agli angoli di ogni vicolo del centro. Cantori di dogrel, poesie di bassa lega biasciate in irlandese lontane dall’inglese pulito di accademie e conservatori, pregne di vita vissuta e ironia.
Madre Dublino è perennemente ubriaca e incinta, con pochi denti in bocca e la battuta sempre pronta, che sdentata declama verità esistenziali e antiche ballate celtiche, che ride sguaiata e piange in gaelico. La madre “discinta e appassionata” che nell’incipit di Ripley Bogle “urla per la riluttante produzione del celebrato Master Ripley Bogle”. Così si presenta a noi (e al mondo stesso) il primogenito autobiografico di Robert Mc Liam Wilson, , “un eponimo bastardo con la testa grossa che spinge rabbiosamente in fuori”. Ripley Bogle, il giovane vagabondo poco più che ventenne che bazzica (affascinante, sarcastico, marcio e malato, tanto vile quanto sensibile) le vie della grande capitale inglese.
You’re so real, I’m a show reel
Gente dura, gli irlandesi. Il bicchiere o lo alzano o lo tirano. Ridono in faccia a quasi tutti i mali del mondo. Quando non ridono, di solito vomitano. Quando non vomitano, riflettono ad alta voce su un esistenzialismo fragile e feroce che solo i loro occhi chiarissimi ed acquosi sembrano capaci di cogliere.
Non credo ci sia modo migliore di descrivere Ripley Bogle. Anche perché il libro parla solo di lui. Del resto, un giovane vagabondo che vive ai margini di tutto, deve pur trovare un modo per sentirsi meno invisibile. E Robert McLiam Wilson parla di gente ai margini sì, ma che di invisibile ha ben poco. I suoi personaggi non li metti a tacere. Diversamente ha fatto il suo alcolismo, che dopo due romanzi incredibili e una schifezza assoluta, ha deciso di privarlo di qualunque tipo di ispirazione, a quanto pare.
La poesia degli irlandesi sono i “dogrel”, versi da bassifondi dalle rime forzate e puerili, dalle parole storpiate, fuori metrica, inventate, iperboli sconce e battute strafottenti. Indispensabili per cospargere di una patina di romantico umorismo la cruda realtà di una vita difficile. Hanno il tono affabile di un monello di strada alla Dickens che cerca di distrarvi con le sue storielle per fregarvi meglio. Hanno quel giro di basso alla Clash, quei riff di chitarra alla Pere Ubu, e la voce sempre più gaelica di Grian, sempre più graffiante e sporca, lamentosa, roboante, che si mischia al grigiore della periferia londinese. Del resto, i figli d’Irlanda da secoli in quelle periferie sono di casa.
A Dogrel of Two Cities
C’è madre e madre. C’è Londra e c’è Dublino. (Poi ci sarà anche Belfast, perché McLiam Wilson viene da lì, ma non in Ripley Bogle. Non così tanto, almeno). La madre inglese e colonialista che lascia una bava ributtante di rossetto appiccicoso su tutti i figli che bacia. Legittimi come illegittimi. La madre dagli enormi seni cadenti e gonfi di latte, che nutre e si nutre, che li accoglie tutti e poi li scaglia via con le sue dita adunche, con le sue mani enormi che sono state capaci di stringersi su quasi il globo intero.
Se Irvine Welsh parla dei giovani scozzesi che passano le giornate a fare il celebre Trainspotting (guardare i treni che passano, i treni degli altri), i Fontaines D.C parlano in Dogrel dei giovani irlandesi che passano le loro giornate a parlare dei “Boys in a Better Land”, questo posto tanto spregevole quanto desiderabile. Qualunque posto che non sia lì.
“If you’re a rockstar, pornostar, doesn’t matter what you are, get yourself a car and get out of here”
Grian ironizza. Dublino te la porti dentro. L’Irlanda ti rimane addosso. Ritorna nelle composizioni teatrali di Ripley, nei suoi racconti, nella sua indole impulsiva e fiera che lo rende affascinante, lo salva e lo rovina. La strofa ha un bel ritmo, incalzante, piacevole, ti rimane in testa, la canticchi al semaforo come se non avesse alcun peso. Senza rendertene conto, riesci a fregartene degli altri. Quelli nati altrove. Quelli che non sono qui.
Quello che hai intorno è tuo e meraviglioso.
I riff di chitarra di Hurricane Laughter ci fanno rimbalzare tra i muri in mattoni rossi di Dublino, tra le sue raffiche di vento e pioggia gelida, Roy’s Tune ci fa vagabondare per i Docklands al tramonto, mentre gli scaricatori di porto si avviano a testa bassa verso il pub. The Lotts, uno dei pub più storici della città, è un re incoronato dalla miseria. Sembra di no, ma questa è meraviglia: non c’è città più bella, più seducente e coraggiosa di questa Dublino accoccolata al tramonto sui suoi vicoli di gente sfinita e autoironica, che si fa forza alzando un bicchiere, stretta nel cappotto pesante. È meraviglia. Forse è solo troppo reale per noi.
Boy(s) in a Better Land
Seguiamo il giovane Robert Mc Liam Wilson, aka Ripley Bogle, nella sua Londra che attraversa centimetro per centimetro, in un close up che ha un significato esistenziale, perché la sensazione che hai addosso è che se ti distrai un attimo da lui, se ti perdi a guardarti intorno, se trovi altro da fare, smetterai di farlo esistere. Del resto, ci pensa già Londra a mettere a rischio la sua esistenza, sfidandolo a non morire assiderato, accoltellato, alcolizzato… per tutto il libro una parte di te non fa altro che sperare che non muoia.
Londra: una città tanto scintillante quanto brutale, che la stessa scena post-punk britannica (quelli che nella “better land” ci sono proprio nati) non risparmia di condannare, con band che al momento stanno producendo opere interessantissime, originali e profondamente radicate nel reale del presente, e che non sono passate inosservate a nostro occhio vigile di amanti della musica, come gli Sleaford Mods o gli Idles, che potete ascoltare nella spinnica playlist. Consigliatissima, che ve lo dico a fare.
“Londra in generale è un posto balordo. Sì che lo è. Lo sapete che lo è. A me piace la vecchia Londra. Nella gloria del suo grigio sporco. Tante vite vivono qui. Un sacco di vite. Nel periodo delle candele la neve è morbida, e bianca, mentre in Irlanda l’inverno è bruno e bagnato. Ah Londra! Che città. Ci ho camminato dappertutto. Tanti ricchi distratti e tanti poveri ostinati. I signori e gli abietti. Londra vive per tutti e due, quasi nella stessa misura”.
Eppure anche qui c’è meraviglia. Ripley Bogle è capace di amare (Londra, ma la sua stessa vita) così immensamente da cogliere ogni frammento di alba, ogni gioco di luce, ogni suono attutito di pace nella notte. Se lui, che è immensamente solo, non lo è mai davvero, nessuno lo è. Abbiamo tutti almeno un lettore a cui raccontare una storia, e una città da spiare quando è distratta. Che ve lo dico a fare? È poesia, un dogrel, una risata a denti stretti che soffi in faccia a chi potrebbe darti il suo cuore e invece ti offre le viscere, ti costringe a mangiare spazzatura, dormire sul marciapiede, e a volte, in un impeto di brutale crudeltà, non ti permette di nasconderti abbastanza bene da non farti vedere davvero.
“Mi hanno guardato come fanno loro. Mi hanno guardato come le ragazze guardano gli storpi, gli incidenti stradali, gli insetti. Lo sguardo che dice che non si dovrebbero vedere cose del genere, cose che non hanno cittadinanza nel loro mondo di salute e bellezza.”
“Is it too real for ya?” ci urla addosso Grian. Dietro imperversa una bufera sonora degna delle migliori tempeste dell’Atlantico. Sai cosa, Grian? Sì, lo è. A volte lo è.
Dogrel: l’imperfezione dell’arte di strada
Ripley Bogle è un libro imperfetto, ma che rivela l’immenso potenziale di McLiam Wilson. Che d’altronde ha ventidue anni, vive per strada e trasuda cultura. E dipinge un disastro di vita che, a dispetto dell’estro delle finzioni narrative che usa, temo sia drammaticamente reale.
“Arrancai con fare da barbone anche il primo giorno di scuola, a quanto ricordo. I miei fratellini si erano dedicati a una spettacolare manifestazione di piagnistei e vomito per tutta la mattina, e mio padre era stato trovato, ubriaco fradicio, nella carbonaia. Di conseguenza, più diplomatico di quanto non si convenisse alla mia età, avevo rinunciato ad appellarmi alla clemenza di mia madre”.
Del resto anche Dogrel è un’opera imperfetta (e un “dogrel” stesso come forma d’arte, del resto, lo è). Pur fortemente identitaria e personale, si distacca ancora troppo poco da quelle sonorità rivoluzionarie che sono sicuramente alla base della formazione dei suoi musicisti. Ripley Bogle parla con la voce di Swift, Dickens, O’Brien, Byron. Si gingilla con epica, teatro, stream of consciousness, satira e parodia. Non le destreggia, ma ci gioca, e non è da tutti. I Fontaines D. C. sanno di Clash, qualche rimando ai Cure, Pere Ubu, The Fall. Si sente il loro riverbero in sottofondo, ma parlano una lingua loro. Sono opere prime, innegabile. Incerte sulle gambe e con la bocca sporca del latte dei loro miti. Ma trasudano bellezza, originalità e coraggio, e in entrambi i casi spianeranno la strada a due capolavori di cui avremo modo di parlare in futuro: Eureka Street e A Hero’s Death.