If You Leave e L’amore tra alieni
Daughter e Terézia Mora ci insegnano che ciò che ci rende diversi, ci rende speciali.
Spinnici amici, dopo lunghi silenzi su questa rubrica (ma non certo sul canale di Spinnit, che nel frattempo ha inaugurato lo splendido format che tutti aspettavamo: Stati di alterazione e, un merchandise d’eccezione per rendere spinnico il vostro Natale). Qui su The Moonshiner torniamo con una miscela finalmente all’insegna del femminile, della consapevolezza di sé stessi e della propria diversità (leggi: unicità). Da una parte una delle voci contemporanee più importante del mondo tedesco, Terézia Mora, edita in Italia da Keller Editore, con la sua raccolta di racconti L’amore tra alieni, e dall’altra una delle voci più struggenti della scena britannica since 2013, quella di Elena Tonra e dei suoi Daughter, con l’album che ha fatto conoscere la loro timidezza impacciata al mondo: If You Leave.
Fuori posto
Il ragazzo avrà avuto diciotto anni, il vecchio non è vecchio per niente, ne ha appena cinquantasette, solo l’aspetto è quello che altri hanno a settantacinque.
L’incipit del primo racconto di L’amore tra alieni di Terézia Mora ti lascia smarrito. “Ma di che stai parlando? Quale ragazzo? Quale vecchio che non è vecchio? Chi sono queste persone che non sono neanche come le descrivi?”. Ti senti come quando ti arriva addosso un’onda inaspettata. Violenta. Ti butta sott’acqua e senti il sale bruciarti negli occhi, entrarti nel naso. Sgradevole. Perdi ogni riferimento. Ma non vorresti essere da nessun’altra parte.
La voce di Elena Tonra sembra quella della ragazza fuori posto a qualunque festa adolescenziale, quella nell’angolo che invece di ballare e divertirsi e rendere memorabile la sua folle serata da giovane ribelle senza limiti se ne sta in un angolo con gli occhi bassi, dondolandosi da una gamba all’altra, ed è bellissima. La musica dei Daughter ha elementi folk, post punk, atmosfere cupe e malinconiche che a tratti sfociano nel goth-rock. Ti porta nel profondo di un qualcosa di oscuro, in un abisso tanto personale quanto collettivo, e poi ti accompagna dolcemente in risalita, e da lì, dal palmo caldo di quella mano che ti sorregge malferma, ti accorgi che ci sono una miriade di stelle in cielo, e se ci sono tutte quelle stelle in cielo, la notte non può essere così buia come pensavi.
Being foolish fragile
Da quando ho la bici sono felice tutte le mattine, a volte anche la sera.
I personaggi di Terézia Mora sono persone semplici, che la loro felicità la cercano a pezzettini, nelle piccole cose, perché di cose grandi non ne hanno. Nessuno ce li descrive, vengono fuori dai frammenti dei loro pensieri, delle loro lingue, dei loro brandelli di passato e presente che si intrecciano in quello che è più di un personaggio letterario, è un essere umano fatto e finito. È anche un po’ tutti noi, fragile, forte, ferito, dolce, brutale, impaurito, incerto. A chi legge il racconto resta l’impressione di avere conosciuto una persona vera, che però non ha mai davvero guardato in faccia. Non ha lineamenti o tratti somatici, ma ha un passato e un futuro da definirsi, sempre da definirsi. Sono alieni, perché li riconosci, ma non li conosci davvero. E cercano di tenere insieme quello che cerchiamo di tenere insieme tutti noi: l’amore.
Il punto è che, per quanto uno possa tentare con cura e perizia di mettere sempre a posto tutti i pezzi, a venire fuori dal puzzle finale c’è sempre qualcosa di rotto.
Qualcosa di rotto
Terézia Mora è una che di essere fuori posto ne sa qualcosa. È nata in Ungheria, in una piccola enclave di lingua tedesca. Non è una cosa né l’altra. Scrive in tedesco, ma lascia che traspiri l’ungherese. Scrive in un tempo verbale, ma lascia che dall’enunciato ne traspiri un altro. Che il passato aggiunga le sue considerazioni, che il futuro si contraddica, che scopra anche lui qualcosa di sé man mano che ci avviciniamo al punto della frase. Parla con frasi spezzate che si interrompono senza segni di interpunzione perché sono parole di persone persone che hanno dentro qualcosa di rotto, da sempre, o che si è rotto strada facendo. Non è colpa loro, è che a volte succede. Spesso, succede. E nel tuo modo di essere rotto, sei unico.
Se lei dicesse Vieni, andiamo sull’altalena, lui lo farebbe subito. […] Ma lei non lo propone. Risalirono in macchina. Stiamocene un attimo seduti qui. Stare seduti in macchina è una bella cosa.
In If You Leave colpiscono due cose: la voce di Elena Tonra, che riesce a stare in quell’incredibile interstizio tra una insicurezza dolcemente bambina e una consapevolezza dolorosa profondamente adulta, e l’ingresso delle percussioni. Ovunque ti portino le melodie, a qualunque deriva lascino che si vada a incagliare malinconico il suono, arriveranno sempre a sollevare il tessuto armonico del pezzo, a portarti più in alto di dove ti trovavi. O forse solo più a fondo di dove eri mai andato a ispezionare l’interno del tuo essere, fino ad arrivare proprio lì, nel punto in cui, sì, anche tu, sei rotto.
Essere alieni
We are the reckless, we are the wild youth canta Elena Tonra davanti all’abisso che ci lascia guardare, mentre i delicati accordi iniziali di Youth le bagnano le punte dei piedi. Siamo un maratoneta troppo vecchio per inseguire un ragazzo, siamo due ragazzini abbandonati che credono solo al loro amore puerile perché non hanno altro, siamo due clandestini in una grande città che non ci vuole, siamo due fratellastri con le vite distrutte dalle scelte dei nostri genitori che cercano di lasciarsele alle spalle. Siamo i personaggi dei racconti di Terézia Mora.
Poi arriva la batteria. In qualunque buio malinconico tu sia riuscito a infilarti mentre procedeva la canzone, ti prende e ti riporta in superficie, e no, non è la salvezza. È la consapevolezza che ci sei, che essere rotti va bene, essere fuori posto va bene, spiegarsi con quelle parole che si inceppano sempre su quelle stesse crepe.
È quello che succede se te ne vai (if you leave, sic). Arrivi da un’altra parte, e ci arrivi da solo, e sei rotto sì, e fa male, ma splendi di una luce che sconfigge qualunque buio. Usi parole tue, che riflettono il mondo che hai visto e che hai imparato ad amare, ed è solo tuo, e ora quell’abisso puoi fermarti a guardarlo lasciando che il suo riverbero (il riverbero delle chitarre) si rifletta nelle tue pupille senza averne paura.
It wont’leave, but so are you.
“L’alieno è quello che in ogni situazione sta sempre un po’ “fuori”, un po’ decentrato, quello un po’ strano. Cos’è che lo rende strano? Al di là di una certa predisposizione che tutti ci portiamo dietro dall’inizio o che viene da traumi successivi, in genere è il problema di cui devi venire a capo in quel momento, e che fondamentalmente devi risolvere da solo” dice Terézia Moria nella splendida intervista di Daria Biagi su Minima e Moralia.
If You Leave racconta il disagio, e ne fa bellezza. In un mondo che ci vuole sempre sorridenti, positivi, dediti a celebrare ogni nostro successo – dalla colazione perfetta alla vacanza impeccabile – di fronte a una platea di spettatori muti che ci prendano ad esempio dall’altro lato di uno schermo, perdiamo di vista l’importanza di restare immobili.
Ma il tuo sogno qual è? Qual è la cosa che ti piacerebbe di più fare? Niente di niente. Guardare il sole che sorge e tramonta. Oltre quei pochi minuti al giorno non vorrei proprio vivere.
In L’amore tra alieni Terézia Mora appoggia una mano sulla spalla dei suoi personaggi e gli sussurra “Fermati. Amati”. Fa notare loro di trovarsi davanti a un abisso che fa paura come la morte, è vero, ma non si muore. Si impara ad amarlo, perché è parte di noi, e forse ne è la parte più bella. L’amore tra alieni è anche l’amore che impariamo a nutrire verso noi stessi. E poi? Poi si fa ritorno a casa.
If You Leave… Tornare a casa
Negli ultimi giorni prima di Natale lavoro finalmente come tutti gli altri e vado a fare jogging col buio. Una volta a Victoria Park, supero involontariamente l’uscita e faccio il giro del parco due volte anziché una sola come al solito, così che alla fine ho corso due ore anziché una, ma riesco a resistere e a non rifarlo. Al tredicesimo allarme antincendio ritiro fuori il cappotto invernale e prendo un aereo per tornare a casa.
In tutti i racconti c’è un climax. Si parte da una situazione, che non è ottimale ma che in qualche modo sta in piedi, da cui a poco a poco fa capolino l’abisso. Che c’è sempre stato, c’è sempre, ma vediamo i personaggi ricamarci intorno complicate routine e piccole certezze come baluardi fortificati per evitare di guardarlo in faccia. Non tanto perché fa paura, ma perché fa paura l’idea di avere paura. Di perdere tutto.
If You Leave non pone una condizione banale. Cosa succede se te ne vai, se esci da tutto quello che conosci come tuo?
La risposta è che poi torni a casa. Raccogli tutto quello che sei diventato in quel momento, tutto quel tuo essere alieno, e affronti la tua vita più consapevole di quello che è, di quanto è bella, di quanto fa male.
I racconti di Terézia Mora non finiscono davvero. Lasciamo queste persone rotte dove erano rotte anche prima, solo consapevoli che c’è anche la speranza che le cose si aggiustino. Le lasciamo tutte con il sorriso fragile e gli occhi lucidi di chi ti strizza un occhio e ti dice “me la caverò”.
Allo stesso modo, il pezzo di chiusura di If You Leave è la delicata spirale di suono che li riporta a casa, struggente pezzo conclusivo di un album che si mette completamente a nudo, che ti fa sentire fragile, diverso, alieno. Però è casa. Ed è forse il più grande regalo sapere che quello che ci rende quello che siamo, l’amore che siamo in grado di dare e provare, ci riporta, sempre inevitabilmente sulla strada di casa.
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