L’importanza della luce
Light dei DakhaBrakha e Le notti bianche del famigerato F. M. Dostoevskij. Consigli per chi non vuole lasciarsi nutrire dal buio e dall’odio, ma dalla luce
Ci ho messo un po’ a decidermi, perché io, all’inizio, di queste cose non volevo parlare. Della Russia, dell’Ucraina, del buio, della luce. Volevo chiudermi in un silenzio solo mio e lasciare che giorno dopo giorno la guerra devastasse anche me. Poi ho pensato che se non ne parliamo, se lasciamo che su tutto cada un velo di buio, allora sono devastati due volte. E che invece, sotto a quel buio, come ci insegnano gli Smiths, “there is a light that never goes out“. In Ucraina c’è Light, dei DakhaBrakha. E in Russia, le Notti bianche.
Le notti bianche. Ossimori targati sessantesimo parallelo nord
Io sono un sognatore;
ho vissuto così poco la vita reale che attimi come questi non posso non ripeterli nei sogni.
Le notti bianche non hanno bisogno di presentazioni, sia in quanto fenomeno naturale che come opera letteraria. Di base, capita che una città (e i suoi abitanti) si trovi così vicino al Circolo polare artico, così in cima che più in cima praticamente non c’è niente, da non lasciare tramontare mai il sole durante il solstizio d’estate. Pensavate che la notte fosse il buio incontrastabile per eccellenza? E invece no. Basta come sempre porsi su un’altra prospettiva per vedere crollare qualunque convinzione (quindi non fatevene, date retta a me), nello specifico sulla linea ideale del sessantesimo parallelo nord (fatelo, date di nuovo retta a me). In questa apoteosi di luce che si oppone a tutti i veli di buio del mondo, Dostoevskij crea un sognatore, il mectatel’stvo, quello che vive la vita solo accarezzandola e che del suo stesso essere sognatore vorrebbe liberarsi per diventare reale, vero, ma rimane invece nell’azione tanto indefinito e impalpabile quanto lo è la stessa materia dei sogni, e lo fa muovere per una Pietroburgo non più spettrale, ma piena di luce, piena di uno speranzoso domani. Convivono l’incubo e il sogno, la luce e il buio. Pensavate che come unica dimensione possibile del reale ci fosse la realtà? E invece no. Basta leggere Dostoevskij. Lasciatevi mettere sottosopra
Light. Linguaggi antichi, sitar, rap e drum ‘n’ bass
DakhaBrakha vuol dire “prendere” e “dare” in una lingua antichissima che nessuno parla più. Vi si apre davanti la buffa immagine di tre donne e un uomo, in abiti tradizionali, lunghe trecce, collanone e cappelli pelosi, in piedi su una specie di laguna. I loro non sono concerti, ma vere performance (se amate queste cose ricorderete i GodspeedYou! Black Emperor di cui abbiamo già scritto e parlato approfonditamente). Al momento attuale, un banner avverte anche che sono costretti a cancellare i loro concerti in Ucraina, ma che continueranno a suonare nel resto del mondo, per aiutare l’Ucraina e donare aiuti. We will win! Glory to Ukrain! Trionfi di luce.
Light (2017) è uno di quegli album che rientrano nella semantica del confort, quelli che ti parlano da immensamente vicino pur usando linguaggi che stanno a eoni di distanza da te. I DakhaBrakha mischiano strumenti mai sentiti e impronunciabili (vi sfido a dirmi chi ha mai visto un darbuka, una tabla o una garmoshka) a basi elettroniche e rap, brani tradizionali balcanici, turchi, arabeggianti alla drum ‘n’ bass e al folk americano, canti profondi in lingua ucraina a falsetti ai limiti dell’incredibile in inglese. Come quello di Baby.
L’amore alla luce delle Notti bianche
Se uno dovesse riassumere in pochissime parole la trama delle Notti Bianche (se vi piace l’idea, questa cosa la fa molto meglio di me Francesco d’Isa sull’Indiscreto, potremmo dire che in quattro notti e una mattina, un tipo tanto dolce e fascinoso quanto poco concreto si innamora di una donna. Fine (senza fare spoiler). Nel mezzo, Dostoevskij saprà cogliervi nei momenti più intensi e catartici della vostra solitudine, renderà miracolo insuperabile il vostro sentirvi inadatti (lo so che vi sentite inadatti, non fatene segreto), vi renderà forti delle vostre fragilità. Il tutto, signore e signori, praticamente quasi solo davanti a un panchina, ma facendovi sentire nel profondo il respiro antico dell’anima di Pietroburgo. E di tutti noi.
Adesso che sono seduto accanto a voi e vi parlo, ho una paura terribile di pensare al futuro, perché il futuro significa di nuovo solitudine, significa ritornare a questa vita inutile stantia.
Più c’è luce, meno si vede
C’è un artista russo, Tima Radya, che una volta, nella sua città natale, Ekaterinburg, ha installato degli enormi pannelli con del neon sulla sommità di un gigantesco casermone sovietico. Il neon componeva la scritta “Più c’è luce, e meno si vede”. La scritta non si vedeva di giorno, con il sole, ma appariva la notte, svettando sulla città affollata e frenetica, su tutte le finestrelle striminzite di quel prefabbricato che accoglieva milioni di vite, che si manifestavano al mondo esterno tramite una luce. Questo per fare una importante precisazione, la luce di cui abbiamo parlato qui, è solo quella che è capace davvero di fendere il buio e accettarlo in sé in quanto parte del. Le notti sono sempre notti, per quanto bianche. Gli amori sono sempre amori, per quanto infelici. I popoli sono sempre popoli, per quanto dilaniati. Se chiudiamo bene gli occhi, vediamo tutta la loro luce.