Porridge Radio e Sally Rooney: elogio dei palchi minori
Resoconto di quando ho visto un concerto dei Porridge Radio che non c’era e ho letto un libro che non volevo leggere (ma sbagliavo).
Parlarne tra amici
Io e D. ci scambiamo i libri.
“Leggi Parlarne tra amici, te lo porto.”
“A te è piaciuto?”
“No.”
Spesso i libri che a D. non piacciono, non piacciono neanche a me. Per le stesse ragioni.
Però.
Un sacco di libri che a me piacciono molto a D. non sono piaciuti affatto. Per ragioni altre.
Uno dei libri più belli che D. ha letto: ecco, a me quel libro lì proprio non mi è piaciuto.
La prima volta che vado a vedere i Porridge Radio, i Porridge Radio non ci sono.
Sono circa le quattro del pomeriggio, sono sveglia da poco, ma è già la seconda volta in questa stessa giornata. La prima volta non era nemmeno mattina. Essere stanca mi è del tutto indifferente, sto per varcare i tornelli, sto per venire inglobata dal varco spazio-temporale fatto di musica (un po’ glossy, un po’ creepy, come generato dall’ecstasy) che solo il festival sa creare, che ha tante cose che non mi piacciono ma questa, invece, mi piace molto.
Entri, sono sempre circa le quattro del pomeriggio, poi diventa per sempre notte. O semplicemente non ha più importanza: non hai sete, non hai fame, non hai sonno, intorno a te c’è solo musica. La mangi la bevi, la tocchi, te la spalmi addosso (d’altronde, è lei stessa ad appiccicarsi a te). Poi, quando vuoi (ma vuoi? Devi, forse. Davvero, devi e basta?), ti volterai di nuovo verso il cancello, dove ti aspetta la vertigine di una, stupefatta, alba (o la sua assenza).
Ma ora cammino con la mia andatura un po’ sconfitta da attraversamento del ponte bianco, (immenso, sfrontato), sei troppo lungo per passarti veloce, ma sei anche quello che porta ai palchi minori, i miei preferiti, fossi un palco sarei un palco minore. Scaraventata immediatamente fuori dalla cerchia delle Persone normali.
Born Confused: essere un palco minore
Dana Margolin, la cantante e chitarrista dei Porridge Radio, sembra Marianne di Persone normali.
Non nell’aspetto fisico: Dana Margolin assomiglia a una qualsiasi altra ragazza hipster radical coi capelli rasati, i vestiti larghi e mascolini a dare quel tocco androgino a un corpo che rifiuta i canoni estetici femminili sociali (ma sociale/i non è solo l’aggettivo in cui confluisce tutto ciò che riguarda le Persone normali?), l’aria da intellettuale annoiata che si scontra con la musicista/artista tormentata dal suo demone creativo.
Storco un po’ il naso quando mi si presenta davanti, la sua immagine semi-eterea che prende il posto del palco inondato di sole che ammiravo alla deriva delle transenne che lo circondano: nel nostro tentativo di essere persone speciali, e uniche, e originali e irripetibili, ci attacchiamo a modelli che contrastano con l’immagine stereotipata che ci propone la società e diventiamo a nostra volta una immagine stereotipata dell’anti-società, un branco di anticonformisti conformati (“adesso chi è che fa l’intellettuale annoiata?” mi sussurra la transenna). Poi però Dana Margolin comincia a cantare, e penso che è Marianne.
“C’e qualcosa di lei che fa paura, una sorta di grande vuoto nelle viscere del suo essere. Un po’ come aspettare che arrivi un ascensore e quando le porte si aprono non c’è niente, solo il terribile vuoto nero della tromba dell’ascensore, sempre e solo il vuoto.”
Che è tanto impacciata e fuori posto quanto bella nel dimostrarlo, che la sua voce ha una timidezza fragile, quasi virginale, ma è elettrica, carica, come se fosse pronta a schizzare in aria con una violenza inaudita e scatenare un incendio. Dana saluta, poi, quando si volta a controllare che la sua band sia pronta, viene colta dalla vertigine dell’assenza. Non c’è nessuna band. Si scusa, si ribilancia sulle gambe e poi attacca con Born Confused.
Be Sweet
Sono venuta fino a qui (alla fine del ponte bianco) per sentire i Porridge Radio, ma non sono venuta fino a qui (al festival) per sentire i Porridge Radio. Sono inglesi (quindi abbastanza vicini), di nicchia (o alternativi?) giovani e sulla cresta dell’onda (minore), gente da palchi minori (persone normali?), che calca spesso quelli dei molti graziosissimi eventi che costellano le estati delle piccole realtà italiane (come per esempio il Lars Fest, di cui abbiamo parlato qui).
In Persone normali, c’è anche un altro protagonista: Connell, un compagno di scuola di Marianne, nonché unico amico di Marianne, ma dato che Marianne è la ragazzina più impopolare ed emarginata di tutta Carricklea, praticamente parla solo con Connell. Solo, beninteso, quando non sono a scuola, perché a scuola neanche Connell vuole parlare con lei, cosa che in fondo fa un po’ schifo anche a lui, ma è quello che fanno… le persone normali).
Connell assomiglia a un urlo di Dana Margolin. Chi lo ha messo al mondo (una ragazza madre nell’Irlanda antiabortista che fa le pulizie a casa di Denise, la madre di Marianne) non gli ha dato nessuna speranza di omologarsi (il figlio di una ragazza madre nell’Irlanda antiabortista) ma gli ha regalato quel fascino del proibito (chi ama il figlio di una ragazza madre nell’Irlanda antiabortista) che lo porta ad essere parte del tutto senza dover davvero fare niente, se non restare in silenzio. Fino a che non si fa urlo nella voce di Dana Margolin (chi l’ha messa al mondo, le ha detto Be sweet), sincopato, doloroso, raschiante, ossessivo, la tumefazione violacea fatta suono nella gola di una ragazza inglese di Brighton che si piega a mangiarsi il microfono, sola, su un palco.
Persone normali
“Lo hai letto Parlarne tra amici?” mi chiede D.
“Sì.”
Ti è piaciuto?”
“No.”
“Devi leggere Persone normali.”
“Perché?”
“Perché Persone normali è bello.”
Sally Rooney ha trentun anni, è irlandese, ha scritto un libro che non mi è piaciuto (neanche a D.) uno che mi è piaciuto (anche a D.) e uno che non ho letto (ma D. invece sì).
I libri di Sally Rooney mi piacciono molto quando ribaltano su tutti i piani i rapporti interpersonali tra le persone. Cosa succede se pensavi di amare qualcuno ma non sei veramente sicuro di amarlo, o se sei sicuro di amarlo ma non sei sicuro di poter essere la persona che può amare, e se scopri che lo sei ma forse non sei più in grado di farlo, o forse non lo sei mai stato, o forse è solo stata colpa del momento, delle circostanze, delle cose non dette, del bruciante desiderio di essere semplicemente come tutti, ovvero una persona normale?
“Marianne aveva un che di selvaggio che gli era entrato dentro per un po’ e gli aveva fatto pensare di essere simile a lei, che avessero la stessa ferita interiore senza nome, e che nessuno dei due avrebbe mai potuto trovare il suo posto nel mondo. Ma lui non era davvero ferito come lo era lei. Era lei che lo aveva fatto sentire così”.
Persone normali è viscerale. Every bad dei Porridge Radio è viscerale. Un qualcosa di violento e brutale che nasce da dentro e viene fuori, e a noi non resta altro che restare a guardarlo. Ma non è cattivo, non ha mai il sapore di una sconfitta, è sempre un alternarsi di piani che toccano le corde della sofferenza e della speranza, ed è una alternanza perfetta, dolce e crudele.
Disfunzionalità dei palchi minori
Lati negativi? In entrambi i casi la narrazione posa su un substrato di banalità malinconica, che, pur avendo il privilegio di mitigare il tutto rischia in più occasioni di diventare stucchevole. Sembra che Sally Rooney abbia un po’ paura di scrivere dei suoi personaggi, di spingersi così a fondo, per quanto poi riesca ad arrivare a profondità a cui altri non arrivano. Resta il fatto che le disfunzionalità e complessità dei protagonisti dopo duecento pagine si sovrappongono alle tue e no, non ne sentivi il bisogno.
E anche Dana Margolin lascia un po’ questa impressione: così complicata e contorta e confusa che a volte sembra non poterne più neanche lei di sé stessa, la sua stessa fragilità la disgusta, questo pubblico di un palco minore di un festival immenso la disgusta, la sua musica la sovrasta. Ed è allora che ci urla addosso, che si urla addosso. E l’impotenza che ha su di sé è potentissima, crea un muro di suono e di voce aggressivo, ostinato, poi lentamente si spegne, languisce, ancora qualche accordo e il pezzo è finito.
Every bad, Porridge Radio
Io e D. andiamo insieme ai concerti punk.
Ai concerti che non sono punk ci vado senza D.
Fa parte della complessità della nostra relazione. “Una cosa che funziona tra persone disfunzionali” mi sussurra la transenna.
Per questo D. non c’era quando ero sotto il palco ad ascoltare i Porridge Radio. Poco male, neanche loro c’erano, c’era solo Dana Margolin. Un problema di Brexit. Sto per fare una riflessione acida sulla contraddizione di un popolo che basa la sua strategia politica ed economica sulla inclusione e tolleranza di risorse estere promettendo una qualità della vita migliore, ma la transenna mi ricorda che io, proprio io, paladina di uno stile di vita essenziale nonché radicale (biciclette, verdure del mercato e second hand), sono nel paradiso lisergico del capitalismo, a sorseggiare birra di pessima qualità pagata a peso d’oro (regalata, che forse è peggio). “Adesso chi è che si contraddice?”
Ero a questo festival pieno di inglesi e non c’è stato un cantante britannico che non abbia inveito alla Brexit, alla regina, a Boris Johnson. Sono strani, gli inglesi. Spesso si stanno sul cazzo da soli.
Rebecca Solnit dice che il blu è il colore che associamo al desiderio e anche alla distanza che interponiamo tra noi e l’oggetto stesso. Persone normali ed Every bad sono blu, come il mare trincerato alla fine del ponte che porta ai palchi minori, o i giochi di potere che perpetriamo sulle persone che ci amano o ci desiderano, su chi si fida di noi, i compromessi a cui guardiamo gli altri cedere. Le possiamo chiamare complessità disfunzionali?
Categorie